Maggio 4, 2024

Fortebracci

... Braccio... che per tutto ancora con maraviglia e con terror si noma...

Queste le parole fatte pronunciare da Alessandro Manzoni a Niccolò Piccinino nella tragedia Il Conte di Carmagnola, per descrivere la personalità di Andrea Fortebracci detto Braccio.

Figlio di Oddo e di Giacoma Montemelini, nacque il 1° luglio del 1368 a Montone e fu fra i Condottieri più celebri del suo tempo; Governatore di Bologna; Rettore di Roma; Signore di Perugia; Principe di Capua; Conte di Foggia; Gran Connestabile del Regno di Napoli.

Cominciò molto presto la carriera militare, come Paggio nella Compagnia di Guido d'Asciano e poi al servizio del Conte di Montefeltro.

Parallelamente, la sua famiglia veniva defraudata di tutti i beni.

Entrò, allora nella scuola di Alberico da Barbiano rivaleggiando con Muzio Attendolo Sforza, ma nel 1390 tornò a Montone e con i suoi due fratelli uccise tre Componenti della famiglia che aveva condotto l’esproprio dei loro beni.

L'azione gli valse una taglia che lo indusse alla fuga presso i Montefeltro, per i quali combatté i Malatesta.

L'anno successivo, ferito nell'assalto della rocca di Fossombrone e sconfitto a Fratta Todina, rifiutò di servire il Signore perugino Biordo Michelotti e solo nell’aprile del 1395 tornò nelle fila di Alberico per servire il Regno di Napoli.

Due anni dopo, si pose al soldo della Chiesa contro Perugia; assediò Montone e, morto il Michelotti, tentò di occuparla.

Nel 1400, fu ingaggiato dai Visconti ma, due anni più tardi, morto Giangaleazzo, tornò alle dipendenze della Chiesa contro Milano. Quando, tuttavia, nel 1403 Bonifacio IX si riconciliò col Duca incassando il controllo di Bologna, Assisi e Perugia e la fazione dei Raspanti pretese che i Fuoriusciti non si avvicinassero oltre le venti miglia dalla città, Braccio sostenne Alberico da Barbiano e Lorenzo Attendolo contro Faenza e contro il Papa.

Lo scontro, consumatosi lungo il Reno, fu considerato un formidabile esempio di abilità militare: a fronte delle difficoltà delle truppe di Alidosio di Cunio, soverchiato dal Nemico, Andrea fece costruire tre passerelle che gli consentissero di superare le acque; di fiancheggiare i Sodali e di respingere gli assalti ecclesiali.

La sua retrovia rifulse di tale eroismo da valergli il titolo di Cavaliere; un aumento di paga e di condotta ed il diritto di fregiarsi di insegne nobiliari nello stemma.

La circostanza sollevò molte invidie: Rosso d’Aquila e Lorenzo Attendolo insinuarono che egli mirasse a sottrarre il comando della prestigiosa Compagnia ad Alberico che ne ordinò la immediata eliminazione. Braccio si dette tempestivamente alla fuga e, quando la menzogna fu evidente, rifiutò ogni tentativo di conciliazione del Barbiano coltivando il solo disegno di vendicare il proprio onore.

Fra il 1406 ed il 1407, a margine di scaramucce contro Perugia, egli costituì il suo esercito e, acquartieratosi a San Sepolcro, fece fronte alle spese taglieggiando i borghi romagnoli e dell'alta Valle del Tevere prima di accettare la condotta di quattromila fiorini propostagli da Imola e di sciogliere l'assedio di Rocca Contrada, la cui Signoria gli veniva offerta contro l'eliminazione di Luigi Migliorati, Signore di Fermo e nipote del Papa.

Fu il primo formidabile successo.

La conquista di quel territorio allarmò tutta il Piceno poiché presto Braccio aggiogò Ancona e Fano; espulse Carlo Malatesta da Camerino e annientò il Migliorati a Monte Conscio.
Nel 1408, l’occupazione del Conero; le irruzioni nei domini dei Trinci di Foligno; la devastazione dell'area fanese si conclusero con una riconciliazione con l'Avversario e con il contratto convenuto con Ladislao di Napoli che, impressionato dal suo talento militare, lo reclutò per il conflitto con Firenze e con il Papa.

Andrea combatté, pertanto, intorno a Todi, in attesa di ricevere rinforzi partenopei per l’assalto definitivo su Perugia che, a sorpresa, offrì la resa a condizione che il Re revocasse l’incarico al Condottiero.

Ladislao accolse la proposta e Andrea si pose al servizio di Firenze in una situazione di complessiva concitazione: più Papi si contendevano la tiara e due Pretendenti aspiravano al Regno di Napoli.

Assieme al Cardinale Legato di Bologna Baldassare Cossa, Alessandro V aveva dato vita ad una Lega e chiesto l’aiuto di Luigi II d'Angiò garantendogli la tiara napoletana, il cui Titolare parteggiava per Gregorio XII.

L'aspra contrapposizione si risolse con la incoronazione dell'Angioino e la scomunica di Ladislao mentre Braccio, che aveva raffinato le proprie tecniche militari puntando sulla rapidità di manovra e di movimento, veniva incaricato da Giovanni XXIII di governare Bologna. Egli ne profittò per imporre tributi a Ravenna, a Forlì, a Rimini e a Cesena ma, appreso che il Sovrano di Napoli e Paladino di Perugia era morto, senza indugi vendette il governatorato per centottantamila ducati d'oro e tornò in Umbria occupandola.

Appellatisi a Carlo Malatesta, esigente una congrua condotta ed il controllo politico dell'area, i Perugini ne accolsero le richieste e lo nominarono Difenditore della città; ma Braccio lo catturò col nipote Galeazzo a sant'Egidio sul Tevere il 12 luglio del 1416.

Nell’occasione lo sostennero in campo Niccolò Piccinino ed il giovanissimo figlio Oddo, nato da una relazione con una ragazza di Città di Castello.

A margine dello scontro, il Capitano di Ventura subordinò la libertà degli Ostaggi al pagamento di circa ottantamila ducati d'oro che i Perugini non corrisposero, aprerndogli tuttavia le porte della città e investendolo della Signoria, imitati da Todi, Narni, Terni e Orvieto.

Nei fatti, Andrea era proprietario di un piccolo Stato ai confini della Chiesa, il cui clima si era rasserenato a Costanza con l’elezione di Martino V cui egli chiese l'incarico di Vicario ecclesiale sull'Umbria.

Il Primate gli oppose in armi Guidantonio di Montefeltro e Muzio Attendolo Sforza e, nell’ aprile del 1419, dopo averli sconfitti a Spoleto, Braccio vagheggiò il progetto di espansione attraverso le loro terre da Gubbio ad Urbino e, in definitiva, dall'Umbria all'Adriatico.

Il 14 marzo del 1419 però, su mediazione di Firenze, il Pontefice gli riconobbe l'investitura delle terre strappate alla Chiesa a condizione della riconquista di Bologna.

Andrea, allora, rientrò a Perugia e, già vedovo di Elisabetta Ermanni dalla quale aveva avuto tre figlie femmine, contrasse seconde nozze con Niccolina Varano dalla quale ebbe nel 1421 il figlio Carlo.

In quella fase i rapporti fra Giovanna II di Napoli e Martino V si incrinarono: la condizione vassallatica del Regno aveva permesso ai Papi di interferire sistematicamente nelle vicende politiche del regno e di più: in virtù della asserita Signoria feudale, il Papa chiese alla Regina un sostegno economico per la ricostituzione del suo esercito.

Il rifiuto che gli fu opposto produsse la rappresaglia: il Primate investì della corona Luigi III d'Angiò figlio di Ladislao e già Pretendente al quel trono per il diritto ereditario conferito da Giovanna I a suo nonno Luigi I.

Scomunicata, la Sovrana chiamò a servizio Braccio, le cui truppe invasero l'Abruzzo: il successo gli valse la nomina a Gran Connestabile del Regno ed il possesso dei feudi di Capua e Foggia.

Era il 3 febbraio del 1424.

Fedele Alleato degli Aragonesi anche quando Giovanna cambiò rotta, Andrea si dispose a marciare verso l’Aquila quando Muzio Attendolo Sforza annegò nella Pescara.

Lo sostituirono il figlio Francesco; Jacopo Caldora e Bartolomeo Colleoni mentre nell' esercito braccesco sfilavano gli uomini di Niccolò Piccinino e del Gattamelata.

Il 2 giugno di quell’anno si combatté: ferito mortalmente da una pugnalata al collo, Braccio fu catturato e morì dopo tre giorni di sofferente agonia.

Ludovico Colonna ne portò le spoglie a Martino V, che ne dispose la sepoltura in terra sconsacrata. Otto anni dopo, il nipote Niccolò della Stella avrebbe ottenuto da Eugenio IV il consenso a trasferirle nella chiesa dei Minori di Perugia.

Memoria della sua coraggiosa attività è testimoniata in una sala del locale palazzo comunale da quattro affreschi di Tommaso del Papacello: nel primo, egli prende da Giovanni XXIII il bastone di comando delle truppe ecclesiali; nel secondo riceve dagli Ottimali la Signoria cittadina; nel terzo è investito dai Dignitari d'Alfonso d'Aragona del titolo di Principe di Capua; nel quarto è rapprersentata la sua morte in campo.

La leggendaria eredità fu raccolta dal figlio Oddo che, a sedici anni, dopo aver sposato Elisabetta Trinci, era stato infeudato dal padre di Perugia e Città di Castello.

Rivelatosi presto all'altezza delle aspettative, egli sedò una rivolta a Spoleto, Todi e Spello; riorganizzò col Piccinino le proprie milizie e si pose al servizio dei Fiorentini a servizio dei quali, contrastando i Visconti, il 1° febbraio del 1425 cadde in campo in valle dell'Amone.

Gli subentrò il cugino Niccolò della Stella, figlio della sorella di Braccio.

Nato a Sant'Angelo in Vado ed assunto il nome della madre come cognome, nel 1426 egli servì Firenze col Gattamelata, ma non appoggiò la ferma opposizione espressa al Papa dalla zia vedova Nicolina Varano che, nel dicembre del 1428, fu obbligata ad abbandonare Gualdo, Città di Castello e Montone e a trasferirsi a Camerino.

Nel 1431 egli occupò Città di Castello, la cui Signoria fu offerta al Duca d'Urbino.

In cambio della nomina a Gonfaloniere della Chiesa concessagli da Eugenio IV, accettò poi di arginare in Toscana l'avanzata dell'Imperatore Sigismondo; ma quando i rapporti col Papa si deteriorarono, Niccolò passò ai Visconti e marciò su Roma.

Il 25 agosto del 1433, assieme ai Colonna, occupò ponte Milvio e i guadi sull'Aniene; assediò la città impaurendo Eugenio IV che si rifugiò in Castel Sant'Angelo; entrò in Tivoli mentre la fuga del Primate spianava la via ad una improbabile Repubblica.

Successivamente, vagheggiando di diventare padrone dell’Urbe, mosse verso l'Umbria occupando Assisi e proclamandosene Signore.

Nell'autunno di quello stesso anno sposò Ludovica, figlia del Signore di Poppi Francesco da Battifolle, mentre Eugenio IV si alleava con Firenze e Venezia.

Francesco Sforza inviò a Bracciio il proprio fratello Leone, sconfitto e catturato a Foligno, ed in seguito incaricò il germano Alessandro di contenere l’avanzata dell’irriducibile Niccolò.

Il 23 agosto del 1435, per lui fu la fine: colto di sorpresa e tentata la fuga, fu inseguito da Cristoforo da Forlì e nello scontro che ne conseguì, insieme precipitarono in una scarpata. Impigliato da una briglia e finito sotto il cavallo, Niccolò fu mortalmente colpito tra naso e guancia e morì trentenne una manciata di minuti dopo l'arrivo dell'odiato Sforza.

La sua eredità fu raccolta dal quindicenne cugino Carlo, figlio ed erede di Braccio nella Signoria di Montone strappatagli da Giovanni Vitelleschi.

Impedito dal difendersi per la giovane età, in nome della vecchia amicizia col padre egli si rivolse al Piccinino che ne accolse le istanze, prendendolo seco ed istruendolo nel mestiere delle armi: Carlo trascorse vent'anni al servizio della Serenissima, con lealtà tale da valergli l'appellativo di Marchesco.

Recuperata Montone, sposò Margherita, figlia di Sigismondo Malatesta; ma l'insediamento di Sisto IV ribaltò gli equilibri: il Papa gli ingiunse di sgombrare e lo attaccò col Duca d'Urbino e col nipote Girolamo Riario.

Carlo rinunciò ai propri diritti e tornò a Venezia, per la quale guerreggiò in Umbria puntando a rientrare nel possesso dei suoi beni.

Forse avrebbe realizzato il suo sogno, se il 17 giugno del 1479 non fosse morto.

Con la sua morte si concludeva la saga braccesca.

Bibliografia:

E. Ricotti: Storia delle compagnie di ventura in Italia.

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